ECCO PERCHE' ULTIMO E' IL DEGNO EREDE DI VASCO
di Christian Miotti
Per chi ama Vasco, immaginare un suo erede è quasi un'eresia. Un pensiero che scotta sulle labbra, come chiedere a un romanista — e qui Ultimo c'entra eccome — chi potrà mai prendere il posto di Totti nell'anima giallorossa.
Perché certi cuori, una volta occupati, sembrano non lasciare più spazio.
I paragoni, in questi casi, sono sentieri impervi. Spesso suonano stonati, artificiosi. E forse lo è anche questo per molti. Viviamo in un tempo in cui troppe voci sembrano uscite da una stessa forma: pulite, corrette, educate… ma senza ferite. Senza graffi nell'anima.
Senza quel fuoco sporco e sincero che ha reso Vasco un poeta fuori legge. Eppure, se lo guardi bene — se lo ascolti senza distrazioni, se lo segui mentre canta e mentre tace — qualcosa accade. Ultimo ha quella luce malinconica negli occhi, quella rabbia dolce che si porta dentro chi non ha mai avuto tutto e non ha mai smesso di sognare.
Canta per chi non ha voce, urla per chi non è stato ascoltato. E lo fa con una verità che ricorda qualcuno. Così, senza proclami, senza imitazioni, a molti ormai sembra chiaro: Ultimo è l'unico che cammina davvero, e senza forzature, nella scia di Vasco. Non per stile, ma per spirito. Non per suono, ma per intensità
Un'opinione che non è più solo dei fan, ma che lo stesso Vasco ha di fatto abbracciato. Lo ha fatto alla sua maniera: con semplicità, sincerità, e una benedizione pubblica affidata ai social.
Impossibile, del resto, non cogliere le analogie tra i due artisti, tanto negli aspetti luminosi quanto nei capitoli più complicati. Partendo da questi ultimi, entrambi, infatti, hanno vissuto momenti difficili agli esordi della loro carriera al Festival di Sanremo — esperienze che avrebbero potuto segnare il loro cammino artistico.
Vasco Rossi, nel 1983, portò all'Ariston "Vita spericolata", un brano destinato a diventare un inno generazionale. Eppure, fu accolto con freddezza: si classificò penultimo e abbandonò il palco nel bel mezzo dell'esibizione, in segno di protesta, tra l'indifferenza del pubblico e il disprezzo della critica. Ultimo invece, nel 2019, arrivò secondo con "I tuoi particolari", ma fu la dinamica del voto a far discutere: la sala stampa ribaltò il totalmente il verdetto popolare. Il giovane cantautore romano reagì con amarezza, lasciandosi andare a parole dure contro i giornalisti, che, tolte dal contesto, potrebbero sembrare uscite dalla bocca dello stesso Vasco.
Collegandoci a quanto detto sopra, un'altra cosa che li accomuna è il rapporto turbolento con la stampa. Una relazione complessa, fatta di diffidenza e di canzoni ironiche dedicate ai giornalisti stessi. Un'insofferenza, che in entrambi i casi si traduce in una dichiarata preferenza per il palcoscenico rispetto ai riflettori dei media. Vasco e Ultimo non hanno mai nascosto la loro allergia per certe logiche del sistema mediatico: rifuggono le narrazioni forzate, la retorica e il bisogno costante di apparire.
Per loro, l'autenticità conta più della visibilità, la musica più dell'immagine. E proprio in questa ribellione — non rumorosa ma costante — risiede uno dei tratti più sinceri e affini del loro percorso: il desiderio di parlare direttamente alla gente, senza filtri, senza intermediazioni, con la sola forza delle canzoni.
Parlano poco, ma quando lo fanno, colpiscono. Con parole semplici, sempre. Perché è questo, forse, il tratto più profondo che li unisce: la capacità di trasformare la semplicità in poesia. Una poesia per cui non serve uno Zanichelli a portata di mano per essere compresa, perchè è rivolta a tutti: alla gente comune, o agli ultimi appunto. Le loro canzoni non usano giri di parole. Dicono "voglio una vita spericolata", oppure "ti dedico il silenzio". Eppure, quelle frasi toccano corde universali. Sono inni generazionali, confessioni intime, esplosioni di fragilità. Vasco ha raccontato la vita con l'incoscienza di chi vuole bruciarla. Ultimo la racconta con la malinconia di chi vuole capirla.
E poi c'è il palco. Vasco ha fatto la storia con i suoi concerti negli stadi, mobilitando masse come nessun altro nella storia della musica italiana. Ultimo, in silenzio e senza clamore, sta facendo lo stesso. Lo ha fatto negli stadi o lo farà a Tor Vergata tra un anno. Numeri da record, come nessun altro emozioni da brividi, cori da stadio che sembrano preghiere laiche.
Lì, in quei momenti, l'eredità si fa più evidente: la gente canta con lui, non solo per lui. Come succedeva – come succede – con Vasco. Perché la cosa più simile tra i due artisti è che non intrattengono semplicemente il proprio pubblico, lo ipnotizzano, con il loro carisma, con il loro sguardo.
A rafforzare questo legame ci sono anche queste bellissime parole di Ultimo rivolte a Vasco, pubblicate sul suo profilo instagram: "Quante volte nella cameretta di casa mia ho pensato che fossi l'unico a dire certe cose, l'unico senza censure. Mi hai insegnato tutto, sei il mio maestro. Nessuno come te ha descritto le proprie debolezze così bene da farle diventare forza. Mi hai insegnato a vivere anche se sei morto dentro, a sorridere dei guai, a volere una vita spericolata, a guardarmi dentro SEMPRE."
Quindi, se c'è una staffetta generazionale da immaginare, è questa: dal Blasco al ragazzo con il pianoforte, da Zocca a San Basilio, da "Albachiara" a "Piccola stella", da Modena Park a Tor Vergata". Due storie diverse ma speculari. Due modi di stare sul palco che parlano la stessa lingua: quella delle emozioni vere, senza fronzoli.
Vasco è il passato, e ancora il presente. Ultimo è il presente, ma soprattutto il futuro di quella canzone italiana che ha il coraggio di essere nuda, fragile, e per questo potentissima. E forse, se li guardassimo uno accanto all'altro, ce ne accorgeremmo davvero tutti: Ultimo è il figlio spirituale che Vasco non ha mai cercato, ma che la musica italiana aspettava da tempo.